Post by Alessandro Di CandiaForse vi sembrerò un bifolco, ma, per quanto mi piaccia, non ho ancora
capito Gambadilegno a Parigi: qualcuno mi dà dei lumi?
Ti copincollo una cosa che scrissi al momento dell'uscita del disco, in
realtà non so quanto possa essere di "chiarimento". :)
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Qualcuno ne aveva rilevato una certa monotonia nell'interpretazione, e non
ero d'accordo. Una vocalità in equilibrio, direi, emozionanta ed emozionante
ma che vibra in leggeri accenti, in flessioni misurate.
E su quel quattro quarti lento, disinteressato eppure incoraggiato da bei
suggerimenti di piano, e intelaiato solo dallo sfrigolare di acustiche, da
echi di chitarre slide; nei chorus ancora chitarre, stratificate, senza
risparmio, e sopra tutto l'espressività di un mandolino. Su tutto questo,
dicevo, un atteggiamento post-bellum, tutto fatto di pioggie raffreddate e
di sognanti visioni.
Lo dico subito: siamo dalle parti del capolavoro.
Può essere utile ricostruire un soggetto, ma certo importano di più le
suggestioni, e di suggestioni qui ce ne sono a iosa. A partire da quell'"e
allora sognò..." Un continuum di révéries, apparentemente inconsistenti sul
piano temporale, prive di ordine e di ragioni. C'è un gambadilegno
stilizzato, straniato nel titolo a buffa immaginetta da giornalini, subito
smentita.
Gamba di legno è un reduce di guerra, c'è poco da scherzare. Atene e Parigi
i due momenti di una civiltà, quella occidentale, città icone di temperie
culturali precisissime; la prima appare in sogno, sotto la neve,
perfettamente algida e diafana, un mito di perfezione polare. L'altra è la
Parigi di una sfilata di reduci in parata militare, tra cui il nostro gamba
di legno, e con l'entusiasmo per la guerra appena lasciatasi alle spalle.
Un passo indietro, ed ecco il militare e la crocerossina - chissà, forse di
hemingwayana memoria. Sappiamo che lo scrittore americano arruolatosi per il
fronte italiano durante la prima guerra mondiale come volontario della croce
rossa, rimase ferito proprio ad una gamba; in quell'occasione conobbe
l'infermiera Agnes von Kurowsky. Queste vicende sono finite nello splendido
Farewell to Arms (1929). Sappiamo tra l'altro che negli anni venti hemingway
visse proprio a Parigi. E allora, anche la pioggia che sferza i lungomare,
le città e le fermate del tram è la pioggia che proprio in Hemingway è
latrice di morte. Così i soldati, carichi di pioggia, e l'umidità, l'inverno
da cui il militare chiede all'infermiera di poter uscire.
Di nuovo Atene, di nuovo un flash, di nuovo una contrapposizione, e di
questo dopoguerra non rimane traccia di parate e di festeggiamenti, il
nostro è solo. Non ci viene detto nulla di Aprile, non sappiamo se il suo è
stato un epilogo simile a quello di Agnes o piuttosto a quello del suo
alter-ego letterario Catherine.
Il brano si chiude con una breve quanto struggente elegia ricalcata
sull'evocatività di un paio di toponimi parigini, a tratteggiare un paio di
immagini veramente da antologia.
Ripeto, imho un capolavoro di equilibrio e immaginificità.